The Walk è un film di Robert Zemeckis che sviluppa emozione sul versante della ricezione dello spettatore. Un’emozione forte, fisica, che colpisce chi guarda il film e lo tiene in punta di poltrona fino alla sua conclusione: come si sviluppano queste emozioni, in particolare quando l’esito è già conosciuto?
-Attenzione: l’analisi può contenere spoilers, quindi prima di leggere, guardate il film – se non l’avete già fatto.
Una passeggiata emozionante.
Il film The Walk di Robert Zemeckis ruota intorno all’attraversamento delle Twin Towers ad opera del funambolo francese Philippe Petit.
La storia è piuttosto nota: la mattina del 6 Agosto del 1974, Petit attraversò le Torri Gemelle su un cavo messo per questo scopo tra le due torri con il solo aiuto di un’asta per l’equilibrio.
L’operazione e l’evento sono riuscite e il film non fa niente per nascondere il buon esito di quella che resta comunque una storia nota e più volte raccontata. Vediamo il modo in cui Zemeckis architetta la sua narrazione: nella presentazione del film e in una scena che spesso ricorre l’attore (Joseph Gordon-Levitt) che prende le parti di Petit ci dice che mostrerà a noi spettatori come “it happened” situando il tutto al passato.
Per certi versi le stesse Torri sono il simbolo della caduta rovinosa e del senso di morte che accompagna sempre e comunque l’opera umana e le immagini dell’11 settembre 2001 molto probabilmente lavorano nel nostro cervello in modo sotterraneo durante tutta la sequenza della traversata.
Ciò che tuttavia ci interessa non è tanto una recensione del film, quanto la discussione sul modo in cui il regista dispiega l’emozione e gioca con essa nel momento chiave. Paradossalmente il film instaura un regime di tensione nello spettatore nonostante la consapevolezza che l’evento sia riuscito.
Perché ciò avviene? Secondo quali processi?
Cosa c’è dietro una reazione emotiva al cinema?
Dietro il contatto che avviene tra spettatore e film c’è un processo che viene definito sotto il nome di empatia ed è in un certo qual modo una pre-condizione del contatto emotivo.
Fondamentalmente due distinti sistemi neurofisiologici rispondono di questo legame: il sistema che si occupa di un contatto più immediato, immersivo e fisico e che è responsabile di un legame che si basa sui fattori della simulazione incarnata ed un sistema che si stabilisce più sul piano riflessivo e responsabile del contatto che si stabilisce sul piano della Teoria della Mente.
Questi due sistemi, in equilibrio, favoriscono un avvicinamento del sé dello spettatore all’altro che è nell’estetico.
Per far leva principalmente su uno o sull’altro ago di questa fondamentale bilancia vengono chiamati in causa dalle narrazione e dalla messa in scena due tipi di fattori definiti para-dramatic e eso-dramatic (1).
– Fattori para-dramatic: si tratta di indicazioni che assicurano le ipotesi su intenzioni, motivazioni, ricordi e convinzioni di un altro; salienza quindi è data a eventi non osservati online e/o mentalizzati (passato/futuro). Tra gli strumenti cinematografici spesso utilizzati per raggiungere questo obiettivo c’è il minimalismo dell’azione. Questo fattore aiuta nella creazione di una reazione emozionalmente regolata.
– Fattori eso-dramatic: si tratta di spunti percettivi che enfatizzano stati corporei; la salienza è data ad eventi osservati in tempo diretto. Tra gli strumenti utilizzati: suoni, gesti corporei, ascolto e visioni umano-centriche e movimenti di macchina a simulare la visione umana.
Questi due fattori sono alla base del contatto empatico che si stabilisce in un film.
Emozionarsi comunque
Una domanda interessante che si pone quando si parla di cinema è come mai alcune emozioni o stati emotivi continuino ad essere presenti anche quando conosciamo l’esito dell’evento o della scena, e quindi l’interesse narrativo è meno pregnante mentre la sutura emotiva più che quella riflessiva resta forte.
Un’ipotesi base è quella definita sotto il nome di firewall hypothesis, messa a punto da Bordwell(2), secondo la quale l’amplificazione del nostro coinvolgimento emotivo (anche in presenza di una visione ulteriore del film) è da far ricadere su una serie di strutture very low-level gestite dai migliori cineasti in maniera tale da esercitare il potere attrattivo e pre-cognitivo della macchina cinema: attraverso ad esempio l’utilizzo di pratiche formali come primi piani, rapidi movimenti di macchina, montaggio, soluzioni sonore e pratiche di immersione sensoriale.
Quello che si può aggiungere a questa perfetta declinazione operata da Bordwell, viste le evidenze dimostrate da alcune teorie neuroscientifiche, è che, l’esperienza di un film come The Walk è principalmente riparata nei terreni della simulazione incarnata che favoriscono una maggiore immersione emotiva e sub-personale grazie anche a degli stimoli fisici e corporei.
Adriano D’Aloia parla per il film di una forma di“ipersollecitazione del sistema vestibolare (che governa il senso dell’equilibrio dello spettatore)”(3).
Questa sollecitazione del senso di equilibrio è integrata alla firewall hypothesis, in quanto il regista mette in scena una serie di inquadrature che tentano di solleticare sul piano fisico proprio quel sistema vestibolare che governa il nostro senso dell’equilibrio (attraverso quindi i fattori eso-dramatic). Se il 3D della proiezione aggiunge quella profondità che aiuta in questo senso la percezione dell’altezza del filo (finalmente un utilizzo di questa dinamica che può dirsi esteticamente funzionale), anche la versione 2D non lesina la sollecitazione.
La partenza ci mette subito di fronte al senso dell’altezza, i movimenti di macchina seguono il personaggio e la sollecitazione offerta allo spettatore è particolarmente funzionante nelle inquadrature in plongée e dal conseguente contreplongée dal punto di vista degli spettatori che guardano da giù.
Il processo fisico e il processo mentale dello spettatore (con la preoccupazione per quello che sta pensando il protagonista) in questo momento del film sono equivalenti e la tensione è soprattutto dovuta alla sensazione fisica delle vertigini. Il montaggio ci dà immediatamente conto del pericolo e mostra uno snodo che sembra poter essere un potenziale problema.
L’operazione sembra concludersi in quanto Philippe riesce a compiere “la passeggiata” da una torre all’altra e allora, proprio nel momento in cui la tensione sembra allentarsi, lo vediamo rigirarsi e percorrere la corda nel senso opposto: a questo punto c’è una sorta di scollatura tra la tranquillità che sembra mostrare il protagonista e la nostra sensazione atterrita davanti alla gratuità (che percepiamo come pericolosa) dell’operazione.
Questo scollamento è reso perfettamente dalla messa in scena delle acrobazie e dei giochi che il funambolo mette in atto sulla corda: il cavo trema ad ogni acrobazia e il suo corpo si muove per riassestare l’equilibrio. A questo punto, in aggiunta al timore di una possibile caduta, fa effetto e viene messa in quadro anche il risultato di una particolare dinamica narrativa: prima dell’inizio dell’operazione Philippe si fa male ad un piede. La sequenza che ci mostrava questo infortunio aggiungeva immediatamente e cognitivamente un problema alla riuscita dell’operazione.
Noi spettatori sappiamo della possibilità che questo piede dolorante potrà dargli dei problemi visto e considerato che spesso le narrazioni ci mostrano un evento (definito come set-up) che verrà riutilizzato successivamente (e chiamato payoff). Questa dinamica è conosciuta grazie ad una sorta di memoria filmica dalla maggior parte degli spettatori.
La gratuità e il contrasto con il pericolo vengono dunque segnalati da un’inquadratura che, situandosi sul livello fisico, comunica immediatamente allo spettatore un dolore altrettanto fisico. E, tramite l’intercorporeità delle dinamiche della simulazione incarnata (secondo la quale i nostri neuroni specchio attivano le parti del cervello attive quando siamo in prima persona calati nell’azione senza l’attivazione motoria conseguente), ognuno di noi prova la sensazione (virtuale e/o raffinata) del dolore in condizioni di tale pericolo e la tensione cresce ancora: il personaggio è sempre e comunque a circa 400 metri di altezza e il montaggio del film non perde occasione per rammentarcelo.
Philippe addirittura si stende sul cavo, la macchina scende in un movimento a strapiombo ed arriva alle persone che guardano da giù. Questo momento segna una sorta di terza svolta della scena in cui la sensazione della minaccia si fa di nuovo incombente e lo stesso Philippe è costretto ad affrettarsi a chiudere la sua operazione (il gabbiano come minaccia, il maltempo in arrivo).
Quando però Philippe prova a rialzarsi il cavo trema e lui fa fatica a ritrovare l’equilibrio. Contemporaneamente la corda cede in una delle strutture di sicurezza provocando una vera scossa all’equilibrio del funambolo. Ora si trema, un piede non è più stabile sulla corda e questo provoca un attimo di terrore agli spettatori (quelli cinematografici e quelli diegetici nel film sono ormai aderenti – non sono certamente un caso i binocoli come dispositivi ottici che gli spettatori usano per guardare la scena.
Zemeckis segnala la posizione spettatoriale che ha inteso disegnare per questa scena e il nostro cevello è invitato a simulare le sensazioni di chi osserva oltre che di chi compie l’azione.
Ma ancora una volta il nostro eroe riesce a controllare l’equilibrio. Zemeckis allora mette di nuovo in scena il segnale d’allarme fisico, il sangue che ormai scorre dall piede al cavo: sul piano narrativo, la cosa interessante è che il set-up che indicavo prima non conduce effettivamente ad un problema insormontabile per il personaggio, ma si rivela come uno strumento agito verso lo spettatore per utilizzare maggiormente i dispositivi specchio della simulazione incarnata e far vibrare la sua tensione, quasi come se sentissimo il dolore a quel piede.
Il clima è cambiato, si avvicina una tempesta ed il vento ben designato come effetto fisico sui capelli di Philippe completa la carica di tensione della messa in scena così come l’elicottero che sorvola così da vicino il cavo e il nostro protagonista e sembra dare scossoni all’equilibrio di Philippe (e al nostro).
Lo spettatore ormai vibra, siamo arrivati agli ultimi tre passi. Narrativamente sappiamo che Philippe non è infallibile, nella preparazione proprio agli ultimi tre passi aveva dimostrato un problema di concentrazione: succede di nuovo, agli ultimi passi la corda comincia a vibrare, i poliziotti che lo attendono alla fine della sua passeggiata osservano terrorizzati ma non possono far nulla (così come noi spettatori). Noi siamo ormai in punta di poltrona, l’effetto emotivo è riuscito.
Philippe ce la fa, riesce a superare gli ultimi tre passi e compie la sua operazione.
Noi spettatori abbiamo vissuto un’esperienza emotiva completa e complessa che ci ha permesso di vivere l’emozione quasi in prima persona, ma anche da testimoni provando timore per un nostro “amico”. Una tensione e un’emozione che hanno frustrato le nostre possibilità di azione e che ci hanno tenuti attaccati allo schermo per una sequenza lunga e provante sul piano emotivo.
© 2016 – Labyrinth Production – opera tutelata dal plagio, deposito n° 45932 (patamu)
Non sapete che film guardare stasera? Per suggerimenti, date un’occhiata al nostro Dizionario dei film.
NOTE:
(1) Gal Raz, Talma Hendler, ‘Forking Cinematic Paths to the Self: Neurocinematically Informed Model of Empathy in Motion Pictures’, in «Projections», n° 8, issue 2, Winter 2014
(2) David Bordwell, Kirsten Thompson., Minding Movies: Observations on the Art, Craft and Business of Filmaking, The University of Chicago Press, Chicago, 2011
(3) Adriano D’Aloia, ‘Schermi a strapiombo’ in «Segnocinema» n°197, Gennaio-Febbraio 2016