“Nightcrawler” è il primo lungometraggio diretto Dan Gilroy (lo sceneggiatore di “The Bourne Legacy”) tradotto in italiano con il titolo Lo Sciacallo. Un titolo del genere non può che riportare alla mente Jean-Pierre Melville, a cui se il film deve qualcosa è più per il suo Le jene del quarto potere (“Deux hommes dans Manhattan“, 1958), piuttosto che Lo Sciacallo (“L’aîné des Ferchaux“,1963).
La struttura narrativa del film è interessante in quanto sono praticamente assenti a livelli significativi le direttrici di movimento, quindi un andare da un punto ad un altro punto con una motivazione (sebbene narrativamente sia scomponibile in delle micro-trame di superficie e una sotto-trama implicitamente erotica nel rapporto del protagonista con la responsabile del network). Il film ruota intorno al protagonista Louis Bloom (Jake Gyllenhaal) e alle sue peregrinazioni a caccia (quasi letteralmente) di notizie ed immagini sempre più macabre da rivendere a dei network “assetati” di immagini scabrose. Tutto ciò che succede nel film va in direzione di una conoscenza del personaggio, ogni svolta è targata per dare una nuova luce sul personaggio stesso: è il caso della sua ultima incursione, la verifica della messa-in-scena rivela nient’altro che la natura stessa del personaggio.
Il film offre un panorama umano desolante. Gli sciacalli sembrano essere disposti a tutto. Mettono-in-scena fatti di cronaca (ecco un altro sottile richiamo a Le jene del quarto potere) letteralmente modificando l’impatto visivo per poi rivendere a dei network che più che divulgatori di notizie sembrano dei veri e propri organizzatori di opinioni della “massa” (con un impeto un po’ da teoria agenda-setting). E quindi uno dei caratteri principali dei fatti di cronaca, ovvero la casualità, viene addirittura messa in scacco durante la ricezione del film.
Viene quindi proposto, video dopo video, minuto dopo minuto, un catalogo agghiacciante di ciò che gli spettatori preferiscono guardare (nel notiziario delle 6:30), che il nostro “Lou” non disdegna di guardare e riguardare nei suoi lavori. Resta dal film il sorriso dei protagonisti che suggellano la riuscita del “colpo”. Maggiormente è violento il video, maggiore è la possibilità di guidare le opinioni e di creare un caso mediatico (con i famosi “indici” di gradimento che vanno su): vite umane si perdono, ma ciò che conta per il nostro protagonista e per il network è che si tratta di un successo profondamente economico. Solo a questo prezzo, Louis Bloom può ingrandire la propria società.
La recitazione vede un ruolo fuori dalle righe per Jake Gyllenhaal che si presenta unto e corrotto nell’aspetto fisico esteriore. Ma se l’arco della narrazione lo porterà a ripulire completamente la sua immagine esteriore, l’orologio che ruba ad una guarda giurata che nel prologo del film ferma Louis intento a rubare del rame e finisce accoltellato, serve a ricordare al personaggio e a noi spettatori che Louis è un uomo dei nostri tempi, uno sciacallo che si aggira tra le macerie scintillanti della civiltà e ne restituisce l’immagine del crollo, non solo nel materiale filmato, ma anche nel deserto etico in cui alcuni personaggi sembrano vivere. Arrivando perfino ad organizzare la messa-in-scena di questo crollo.
Un doppio ambito di visione sembra costruire la matrice visiva del film: un lavoro digitale che va verso il senso dell’apparato professionale soprattutto per come è inquadratata la vicenda dal regista (e dalla troupe), ma anche uno sguardo alle possibilità più leggere del digitale, in particolare nell’utilizzo che Louis Bloom ne fa. Spesso la tecnica “leggera” sembra poter divenire sintomo di violazione degli spazi, non più come in alcuni film che si basavano sullo sguardo a distanza (La finestra sul cortile -1954 – Hitchcock) bensì invadendo con il proprio corpo i luoghi di cronaca. Non è più un’osservazione dei fatti, bensì un’immissione nei fatti in maniera ben più violenta rispetto alla visione “mediata” dallo sguardo del regista, come spesso avveniva nel cinema in pellicola.
Il film non è sicuramente un’opera che restituisce una nuova visione su certi scenari. Ma nonostante ciò, lo spettatore è costantemente messo in condizioni scomode, seguendo e legandosi al personaggio e al contempo, resosi conto che una tale posizione diviene quasi inaccettabile, sentendosi a disagio per il fatto che il regista non sembra puntare a nessuna redenzione per il nostro eroe (e quindi appagare il nostro personale “ristabilirsi dell’ordine”). Il merito del film è di non prendere mai posizione e di non provare assolutamente una morale calata “dall’alto” dell’autore e lavora sullo spettatore mettendone in subbuglio i concetti morali. Uno dei limiti è il fatto che come ben si può notare dalla pressocchè totale assenza di riferimenti ad altri personaggi del film, a me è sembrato di percepirne quasi l’impalpabilità, essendo quasi pretesti per rivelare solo ed esclusivamente il protagonista centrale.
Il risultato è un film non eccessivamente coinvolgente, ma che mantiene un suo diritto d’esistere in maniera dignitosa anche collocandosi in scia di film cult come Network (1977 – Sidney Lumet) e Le jene del quarto potere (1959 – Jean-Pierre Melville) rimescolati in un pieno pastiche post-moderno attraverso guide spericolate e accelerazioni vorticose alla ricerca della prossima notizia (da creare e poi sciacallare).
Impressioni dalla prima proiezione del film al “FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA” – IX Edizione 2014