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30 Ottobre 2017
2001 | Mulholland Drive (David Lynch)
2001 | Mulholland Drive (David Lynch)
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Mulholland Drive (2001) è uno dei film più importanti che inaugura il millennio. David Lynch porta tutta la sua precedente sperimentazione narrativa agli estremi, rendendo spesso confuse e quasi incomprensibili le transizioni tra le varie sequenze. Ciononostante, il film rivela, ad uno sguardo che intende smontarlo, una coerenza quasi ferrea che non va però necessariamente nel verso di un’interpretazione univoca.

 

 

Difficoltà analitiche.

Mullholand Drive di David Lynch presenta una varietà incredibile di regimi visivi differenti e per proseguire verso l’analisi del testo è necessario, metodologicamente, effettuare una sutura, una condensazione, di due diverse teorie come quella cognitivista e quella psicanalitica, con il fine di raggiungere una sorta di ermeneutica del testo. Per l’analisi è inoltre produttivo scegliere i passaggi di maggiore pregnanza, che sono anche i punti di oscurità del testo, luoghi in cui il senso è meno chiaro, ma contemporaneamente anche i momenti di maggiore intensità che P. Bertetto definisce “punti di vibrazione”(1). Ciò che quindi viene richiesto allo spettatore è inizialmente la ricostruzione della fabula (lineare dunque) a partire dall’intreccio: ci accorgiamo di avere due parti del film, quasi due blocchi trattati diversamente (anche cromaticamente o nei costumi per esempio o nelle distorsioni delle inquadrature nella prima parte e nelle distorsioni invece temporali della seconda parte). Nella prima parte il film è tendenzialmente lineare, mentre nella seconda tutto diviene cronologicamente in disordine e per ricostruire il reale ordine cronologico bisogna porre attenzione sugli oggetti in scena (la chiave, il posacenere). La distanza che salta agli occhi tra il primo “mondo” e il secondo sembra quasi rendere i due estremi in opposizione binaria e diventa quindi necessario collocare questi mondi in sfere di coerenza.

I sintomi.

La prima inquadratura dopo il prologo è lo sguardo della m.d.p., che inizialmente sfocato, si muove liberamente verso un cuscino rosa e poi si immerge nel nero: inizia il film e siamo diretti a Mulholland Drive che diventa un vero e proprio contraltare della famosa strada Sunset Boulevard, sulla quale strada Billy Wilder costruì nel 1950 uno dei suoi film più importanti, per l’appunto Sunset BoulevardViale del tramonto, che intratteneva rapporti con il mondo degli attori e che in effetti diveniva una vera e propria riflessione sul cinema.
La prima immagine sembra già raccontarci qualcosa, ma anche porci dei grossi interrogativi: c’è qualcuno (qualcosa?) che si sta mettendo a dormire, ma questo sguardo a chi è legato? Sull’identità dello sguardo, ma più in generale (o anche più in particolare) sull’identità tout court il film costruisce tutto il proprio senso. La prima scena conduce all’incidente, che a tutti gli effetti e fuor di metafora sembra essere il classico “incidente scatenante” (e lo è davvero, ma non in questo “mondo”) teorizzato nei manuali di sceneggiatura di famosi docenti americani come Robert McKee(2): “L’incidente scatenante sconvolge radicalmente l’equilibrio delle forze nella vita del protagonista.”. È qualcosa da cui non si torna indietro dunque e mette in atto il plot della prima parte del fim, nella fattispecie la ricerca dell’identità di Rita (Laura Harring). Viene quì anche impostata la sua paranoia (certamente motivata) che stiano tentando di ucciderla.

Identità.

Il dramma della perdita della memoria (e dell’identità, quindi) è acuito quando Betty (Naomi Watts) chiede a Rita il suo nome: Rita è sconvolta, si rende conto di non ricordare più nulla. Una volta uscita dalla doccia, in bagno, c’è un poster di Gilda (1946), film di Charles Vidor che racchiude in sè la forza del cinema classico nella presentazione del personaggio e soprattutto della star(3) Rita Hayworth, della quale per l’appunto il nostro personaggio prende il nome di Rita, preferendo, non a caso, il nome dell’attrice a quella del personaggio. Il gioco del montaggio ci conduce al momento dell’identificazione di “Rita” con la combinazione di due inquadrature che rivelano anche il carattere teorico di questa costruzione visiva:
1) il poster di Gilda è inquadrato da una potenziale soggettiva (si suppone sia di Rita, ma non possiamo saperlo, non avendo Lynch presentato lo spazio), rientra tra le soggettive per l’angolazione dell’inquadratura che altrimenti sarebbe totalmente immotivata;
2) un’inquadratura composta da un’eccezionale architettura di sguardi: l’inquadratura che “classicamente” dovrebbe seguire una soggettiva è quella di una composizione (‘eyeline match‘) che ci mostra chiaramente il personaggio guardante con l’allineamento dello sguardo ad altezza macchina e verso un extra-diegetico (direzione della ‘soggettiva’) e in ogni caso frontalmente. Quello che in realtà troviamo è un incredibile gioco di specchi: nello specchio piccolo sulla sinistra dell’immagine troviamo il poster, mentre in quello più grande il viso di Rita che guarda in direzione del poster. Ma il suo viso è accessibile solo tramite lo specchio, dato che Lynch esclude la frontalità e posiziona il corpo di Rita in quinta scenica. Ciò che risulta evidente ad un’analisi della composizione è che gli sguardi (e gli specchi) sono angolati in maniera illusionistica: la Rita dello specchio grande guarda in direzione della Rita (Gilda) nel poster, e solo per questo gioco illusionistico lo sguardo sembra precisamente diretto verso il poster quasi come in un montaggio interno all’inquadratura,e quindi come un’identificazione di uno specchio con un altro specchio (Rita è una proiezione di qualcuno? È già uno specchio dietro il quale si cela qualcuno?). Il corpo di Rita indica che lei guarda invece verso il fuori campo e non verso lo specchio come sembra ad un primo sguardo e quindi il gioco di specchi e sguardi rivela in realtà un altro sguardo (svelato anche nel movimento di zoom verso lo specchio) e cioè quello della macchina da presa e del regista dunque, ma anche di Betty come si capirà in seguito: ciò che interessa a Lynch è l’identificazione che avviene durante lo stadio dello specchio nella teorizzazione di Lacan(4), teorizzazione che poi trasportata nell’ambito teorico del cinema ha gettato luce sul alcuni processi d’identificazione tra spettatore e film, sia nella sua identificazione con il punto di vista della m.d.p.e quindi tutto ciò che rientra nella diegesi, e con il personaggio.

mulholland_specchio

È la m.d.p.che tramite degli specchi ha accesso al personaggio e Rita sembra dunque rivelarsi, così come Rita Hayworth in Gilda, un feticcio(5) e quindi un oggetto del desiderio di qualcuno, ma di chi? D’altronde il plot sembra indicare lei come protagonista, mentra la sua contro-parte Betty, che l’aiuta nella sua ricerca dell’identità ma anche nel proteggerla, sembra aver minore impatto sullo svolgimento del plot. Betty sembra vivere un sogno ad occhi aperti, è un’attrice in cerca di successo, svolge un provino eccezionale e subito le è data la possibilità di provinare per un regista ben più affermato e “in voga”, è nella città dei sogni (Los Angeles) e sembra avere l’approvazione di due personaggi sostituti della sua famiglia (i due vecchietti all’aeroporto); sembra anche vivere in una sorta di mondo noir, un genere così marcatamente tipico di un certo cinema americano. Gli altri personaggi del film (il cowboy, la cameriera, il regista, il killer, Dan e il suo psichiatra che al momento sembra solo un’apparizione orrorifica, ecc.) sono sostanzialmente slegati dal plot principale se non per uno scambio di sguardi che avviene per l’appunto tra Betty e il regista Adam Kescher (Justin Theroux) che si trova nella condizione di dover scegliere forzatamente una certa Camilla Rhodes, sponsorizzata da gangster dal potere infinito – a quanto pare.

Appartamento 1-2.

Un altro segno visivo ci dà la chiave di una certa ambiguità e ambivalenza: quando Betty e Rita vanno alla ricerca dell’appartamento di Diane Selwyn (in questa prima parte del film, Diane è ancora un oggetto misterioso), il loro girovagare all’interno del cortile è puntellato da immagini soggettive di dubbia “matrice” fino all’arrivo all’appartamento 12 in cui ad una sola immagine soggettiva corrispondono i due sguardi “sincronici” di Betty e Rita (che nel passaggio alla soggettiva e poi di nuovo ad un inquadratura di loro che guardano, hanno addirittura inverito le posizioni sceniche). Questo doppio sguardo identifica quasi le due donne come un unico personaggio, facendo aderire i loro sguardi.

Dopo la scoperta del cadavere di Diane Selwyn, Rita scoppia in lacrime e con l’aiuto di Betty successivamente si trasforma in un doppio stesso di Betty imitandone finanche il colore dei capelli (andando a segnalare, soprattutto quando le due si guardano nello specchio, una filiazione estremamente feconda con Persona, film del 1966 di Ingmar Bergman). La sera stessa, dopo che Rita avrà ripreso le sue sembianze originali (il colore dei capelli è solo frutto di una parrucca, di un’illusione) le due protagoniste si lasceranno andare ad un rapporto sessuale appassionato e in cui le due sembrano infine trovare una sorta di completezza (anche se solo speculare). Rita si sveglia poi in preda ad una sorta di delirio e conduce Betty al “Club Silencio“.

Lo spettacolo dell’illusione.

Quì l’immagine sembra rendersi più incomprensibile e diviene quasi una soglia “psichica” di transizione come indicato anche da Bertetto(6) che trova in questa scena e nella transizione successiva il “punto di vibrazione” del film: un presentatore dall’aria vagamente “mefistofelica” sta introducendo uno spettacolo: “è tutto registrato”, “è solo un’illusione” sono affermazioni che sottolineano in maniera estrema il carattere finzionale (quasi una rottura della quarta parete). Quando la cantante cade a terra svenuta, la canzone prosegue confermando ciò che il presentatore aveva annunciato. L’evento non è realizzato in diretta, il canto della donna è soltanto un’illusione. La lacrima che lei ha dipinto in viso è finta, mentre vere sono soltanto “le lacrime e le emozioni delle spettatrici, Rita e Betty”. Rita e Betty sono in una sala buia e vivono con crescente emozione la performance di questa canzone di un amore finito drammaticamente. Ma come ci dice Bertetto “tutto è artificiale, falso, illusivo. Solo la percezione dello spettatore e le sue reazioni emozionali sono effettuali, cioè autentiche. Il resto è illusione. […] Ma uno spettacolo fittizio in cui le uniche cose vere sono le reazioni degli spettatori è una proiezione cinematografica”.

Lynch riesce quindi a metaforizzare il cinema nel teatro e non il teatro nel cinema come spesso accade, arrivando ad una paradossale mise-en-abyme del meccanismo cinematografico che prepotentemente rompe a sua volta il meccanismo a scatole cinesi così costruito per rivelare la propria essenza. Proprio come accade quando il sogno sta per concludersi e le ultime immagini del sogno sono sbiadite e cominciano a mostrare crepe di irrealtà che fan si che la coscienza le “interpreti” come elementi di un sogno, rompendo la totale immersione. Non è neanche insolito il protrarsi di qualche elemento del sogno negli attimi subito successivi al risveglio. Un’illusione dunque che si colloca sul versante meta-riflessivo ma anche psicologico: poco dopo Rita scompare nel nero di una scatoletta blu comparsa nella borsa di Betty proprio nel “Club Silencio” (aperta peraltro da una chiave blu di cui fino a quel momento era rimasto oscuro il significato e la funzione). Betty si rivela il mezzo per la soluzione, essendo lei la portatrice di questo oscuro box. La restante “transizione” (più uno scivolamento, uno slittamento, che una transizione) è lasciata a schegge di irrealtà che sembrano irrompere in un contesto che può sembrare reale. Betty, che nel frattempo è diventata Diane Selwyn compiendo un vero e proprio salto concettuale, si sveglia come da un sogno che si svela alla coscienza come tale.

Il creatore di illusioni.

Un’illusione si, ma organizzata da un’entità che, nel contesto cinematografico risulta essere la regia, ma che, in quello psicanalitico del sogno, è Betty/Diane. Tutto può essere stato un sogno di Diane/Betty quindi: quello che ci viene mostrato successivamente a questo violento slittamento risulterebbe in una linea temporale che Lynch tratta come un un unico flusso mischiando e giustapponendo flashbacks come anche immagini cronologicamente lineari e apparizioni “fantasmatiche”: quello che potrebbe essere o sembrare un tentativo vacuo di rendere incomprensibile il meccanismo narrativo solo per confondere lo spettatore è in realtà scandito temporalmente dai dettagli: collocare ad esempio il posacenere in una linea temporale rende conto di quali siano i momenti precedenti all’omicidio di Rita/Camilla, così come per la chiave blu che segnala l’avvenuto crimine. In pratica, Lynch elimina le transizioni non per rendere incomprensibile il film o la linea temporale, ma perchè le transizioni sono cinematograficamente spesso date come giustificazioni alla distrazione e all’attenzione superficiale che può nascere in uno spettatore. Lynch non ha invece interesse solo nel suturare passivamente uno spettatore allo schermo e non fa altro che, eliminando per l’appunto le transizioni, esigere dallo spettatore sempre maggiore attenzione e concentrazione.

Lo straniamento che nella prima parte accompagnava i cambi di location con una continuità spaziale mantenuta in maniera perturbante (ad es.i montaggi con gli sguardi fuori campo di Rita) ma con il costante gioco del tempo “manipolato”, si trasforma in questa seconda parte in un flusso ininterrotto ma costantemente discontinuo: il contenuto latente del film, dunque il sogno (la prima parte), sarebbe paradossalmente di più facile accesso del contenuto manifesto (la seconda parte, la realtà) e in ciò avviene un interessantissimo capovolgimento di fronte rispetto al cinema classico, dove generalmente è dal contenuto manifesto che vengono tratti spunti per analizzare quello latente che, spesso e volentieri, è sotto le righe e sfuggevole, nonchè difficile da indagare fino in fondo (almeno nei film meglio riusciti).

Rivolgendo lo sguardo agli altri personaggi trasposti nel secondo “universo” diegetico che per convenzione stiamo chiamando realtà, e ponendoli in opposizione “binaria” nel paragone con le loro controparti nella prima parte (sogno) cominciano ad apparire evidenti i meccanismi del desiderio del soggetto sognante-desiderante (Diane/Betty) nonchè quelli della condensazione e dello spostamento tipici del sogno: il regista che nel sogno è soggiogato dai produttori, deve sottostare a certe dinamiche più grandi di lui e ha una vita sentimentale almeno complessa (è tradito dalla moglie) che lo precipita in una crisi di nervi quasi fanciullesca, è invece, nella realtà, un regista affermato ed affamato che dimostra costantemente di sapere ciò che fa, ed è ‘colpevole’ della rottura di Diane/Betty con Camilla; il killer al quale Diane/Betty affida nella “realtà” il compito di uccidere Rita (che nello slittamento è diventata ora Camilla Rhodes – la fantomatica attrice imposta dai gangsters nella prima parte) risulta essere – nel sogno – incapace a svolgere i compiti assegnati anche nella ricerca della “ragazza bruna”, andando ad indicare il pentimento profondo di Diane per l’assassinio del suo oggetto di amore/odio e la sua identificazione con lei che porta con sè il vincolo della doppia morte (del soggetto e dell’oggetto del desiderio che si inscrivono ancora una volta nella stessa “sorte” e forse nella stessa “identità”).

Diane/Betty – Rita/Camilla.

La cameriera del Winkie’s che nel sogno si chiama Diane, nella realtà si chiama Betty: nel sogno solo quando Rita vede la targhetta con il nome della cameriera (Diane) pensa che la chiave per la sua identità possa essere Diane Selwyn; nella realtà l’identificazione del nome Betty sulla ‘spilla’ della cameriera corrisponde al momento in cui Diane sta commissionando l’omicidio.

Camilla Rhodes/Rita, in questo secondo “universo” diegetico, non a caso prende il nome della ragazza che nel sogno è imposta dai produttori al regista. Oltre ad aver soffiato delle parti importanti (ancora un’eco dal sogno) a Diane, ne è anche l’amante omosessuale (unico raddoppiamento simile e speculare al sogno). La rottura di questo rapporto avviene proprio nella ripetizione dell’incidente scatenante su Mulholland Drive: questa volta, al posto di Rita c’è Diane/Betty, ma il meccanismo è pressochè identico tranne per la risoluzione della scena: nel sogno Rita era minacciata di morte, mentre nella realtà Diane è attesa ed è tratta dalla macchina da Camilla/Rita e condotta ad un ristorante dove il regista Adam Kesher e Camilla hanno deciso di comunicare la propria intenzione di sposarsi.

La rottura violenta della relazione, saldata all’evidente stato “schizofrenico” di Diane (comincia a vedere figure strane avvicendarsi anche nella realtà, ad es. il cowboy che esce dal ristorante) conduce al commissionamento dell’omicidio, e si riaccartoccia nuovamente fino al suo ruolo di “incidente scatenante” in evidente rottura narrativa con gli stessi principi della manualistica che prescrivono chiarezza e soprattutto velocità nell’esporre quello che sarà l’incidente scatenante(7), ma anche alla polarizzazione definitiva del mondo di Diane. La minaccia alla vita di Camilla/Rita risulta anche nel sogno nella sensazione paranoica di Rita stessa così come precedenemente delineato.

Il personaggio (o anche i personaggi) Diane/Betty si rivela l’artefice e la vera protagonista latente e manifesta (un altro interessante spunto di lettura potrebbe essere in direzione di un discorso meta-riflessivo sul ruolo dell’attore). Nella seconda parte lei è il personaggio che la m.d.p.segue sempre: il suo ‘oggetto del desiderio’ Camilla/Rita nel sogno diviene ciò che Betty/Diane vuole – esattamente un’altra immagine di sè, che sarebbe simbolizzata anche nella relazione omosessuale. Diane/Betty nel sogno si nasconde, non ha bisogno di esprimersi realmente in quanto le sue motivazioni sono letteralmente messe in scena per tramite dei meccanismi del sogno: la sua passività “finzionale” della prima parte non è altro che uno svelamento del meccanismo del sogno. Quando poi nella realtà i sostituti delle funzioni genitoriali (i due anziani) irrompono come riflesso allucinatorio, irrazionale e censorio del comportamento di Diane, la schizofrenia e la condizione patologica di Diane sono ormai palesate e la stessa Diane sembra compiere la scelta (prefigurata nell’insconscio del sogno nella figura del mostruoso) di suicidarsi e compiere l’accartocciamento definitivo del suo Sè.

Il “mostruoso”.

Nel sogno la scoperta del corpo morto di Diane nell’appartamento 17 sembrerebbe dare qualche colpo a questa ipotesi analitica, ma in realtà la stessa identificazione delle due donne sotto un unico sguardo fa sì che sullo spostamento che avviene nel sogno sul corpo di Diane Selwyn morta si riesca ad aggrappare la condensazione della sorte di Rita/Camilla e per tramite del sè (il personaggio morto si chiama come lei) della decisione risolutiva di Diane/Betty (che diventerebbe in pratica un personaggio già morto come in Sunset Boulevard).

E’ un vero e proprio ponte di collegamento con l’espressione di certi anfratti dell’insconscio come avviene in una delle scene più famose del film: il racconto che un personaggio (Dan) fa al proprio psicanalista al Winkie’s – Sunset Boulevard (ancora una volta centro fondamentale) di un proprio sogno che l’ha terrorizzato. La scena si rivela un sogno di Rita e, come nel meccanismo del “Club Silencio” delle scatole cinesi, diventa un sogno nel sogno ed è quindi ascrivibile alla mente centrale del sogno “genitore” (quindi Diane/Betty) e va a significare un inconscio nel suo “mostruoso”, nel suo essere “perturbante”: ciò che fa paura in questa scena è il fatto che tutto sembra essere uguale alla descrizione che Dan fa del sogno; ripete inoltre più volte, raccontando il sogno, la parola “face“e quindi, seppur preparati ad un’eventuale apparizione, quando il “viso” viene fuori (magistralmente messo in scena da Lynch con un ingresso fluido, privo di scarti umani dovuti ai passi, quasi come se l’attore fosse posizionato su uno skateboard) quello che vediamo è sì un viso, o qualcosa che sembra un viso, ma è contemporaneamente altro andando a risolversi magistralmente nel perturbante, facendo vibrare le “corde” della paura dello spettatore. La costruzione di Lynch è ovviamente perfetta e in totale economia di mezzi: articolazioni di montaggio e inquadrature soggettive in movimento verso gli angoli “scoperti”, tanto che la sensazione di paura è perfino aumentata dal fatto che la m.d.p.non sembra essere ancora arrivata in posizione per il successivo stacco quando il mostro esce fuori, mentre lo spettatore si sta ancora domandando se succeda davvero qualcosa o meno. Dan è colpito da un infarto e presumibilmente muore per la prossimità all’inconscio (che non permette più una differenza della realtà dal sogno), motivo per il quale soccombe anche Diane/Betty.

Il film è un costante ritorno (del rimosso?) nelle forme di un raddoppiamento (schizofrenico) costante: un’analisi ancora più dettagliata potrebbe rendere conto in maniera quasi totalizzante di ognuno di questi raddoppiamenti in virtù della straordinaria coerenza che gli elementi ed i dettagli di questo film concorrono a stabilire, ruotando intorno a dei flussi temporalmente non lineari (a-sincronici quando ad es. si sovrappongono le immagini mentali alla realtà). C’è nella seconda parte uno sguardo di Diane verso Camilla, Diane le chiede se è tornata, nel secondo controcampo (che presupporrebbe la presenza di Camilla) vediamo che lo sguardo di Diane si posa su sè stessa in un momento cronologico differente.

Paradigmi differenti. 

La forza del film sta nel fatto che se si smonta e si rimonta sotto un differente paradigma (ad es. due mondi paralleli; doppio (triplo) sogno; assenza speculare ed indipendenza dei due mondi; il rischio di un rispecchiamento troppo forte e quindi di un’identificazione troppo prossima tra soggetti ed oggetti del desiderio – quindi anche spettatori e star – che arriva al tentativo feticistico dell’emulazioni delle fattenze dell’altro) esso risulta nondimeno privo di spunti.
Lynch mette a nudo una teoria e la porta agli estremi: ogni oggettività è assolutamente preclusa (è comunque “tutto un’illusione”) e sebbene la semina del regista sia ben evidente (proprio al livello dell’illusione) sta solo ed esclusivamente allo spettatore la raccolta di questi semi.

In questi termini il prologo e l’epilogo del film rappresentano, nella lora funzione anche di cornice extra-narrativa, un raddoppiamento fantasmatico del film stesso. Il prologo e l’epilogo portano con sè il doppio concetto dello spettacolo (finzione) e della morte: il prologo è contestualizzabile nel ballo che Diane ha vinto a casa sua e che l’ha spinta a cercare il successo ad Hollywood e l’effettistica “cartonata” e scontornata offre un’immagine a-sincronica dal flusso narrativo e “fantasmatica” denotata dal raddoppiamento infinito della coppia. In questi termini l’epilogo del film offrirebbe il suo ultimo e funereo annuncio del Silenzio che va a situarsi su tre diversi livelli significativi: 1) fine del film; 2) il senso di morte (e il silenzio come condizione esistenziale ultima); 3) al silenzio che alla prima visione caratterizza noi spettatori, attoniti davanti a una tale complessità.

Il film è una sinfonia di dettagli significativi che, ricomposti e ricostruiti e posti in risonanza nelle loro rindondanze, offrono l’idea di una maestria del regista nell’offrire uno sguardo all’interno della mente umana come mai non era stato fatto.
Un magistrale discorso sul sogno, e un incredibile contributo (anche teorico) al cinema.

 
 
 

Non sapete che film guardare stasera? Per suggerimenti, date un’occhiata al nostro Dizionario dei film.

Note.

(1)P. Bertetto, L’analisi interpretativa. Mulholland Drive, in Id., a cura di, Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006 pp. 225-226

(2)Robert McKee, Story, Roma, Omero editore, 2010, p. 173

(3)”[Gilda]: il film stesso prepara il vuoto che Rita Hayworth colma” in M.A. Doane, Identità e misconoscimento, in Eretiche ed Erotiche, a cura di G. Fanara e F. Giovannelli, Napoli, Liguori, 2004, p.82

(4)”il riconoscimento da parte dello spettatore che guarda un film, è sempre un misconoscimento […]. Decisiva e fondamentale per la «forma di misconoscimento» tipica del cinema è la teoria, sviluppata da Jacques Lacan, sul cosiddetto «stadio dello specchio» […]. Lo stadio dello speccio contrassegna una fase evolutiva del bambino tra i sei e i diciotto mesi di vita. In questa fase il bambino non è ancora in grado di controllare la motilità del proprio corpo […] ma è capace di riconoscere la propria immagine allo specchio.[…] Questa esperienza non si esaurisce però nella situazione in sè, come accade per le scimmie antropodi, bensì significa per Lacan l’ingresso del bambino nell’ordinamento simbolico, ossia nelle strutture sociali. Per un verso, il bambino si percepisce dall’esterno come entità completa e in sè conchiusa; non sarebbe possibile avere questa percezione dall’interno […]. «Il bambino si identifica con se stesso come oggetto» – afferma Metz. Egli si percepisce più progredito in senso motorio di quanto non sia in realtà, poichè è capace di determinare da sè i movimento dello specchio, vale a dire possiede quel grado di controllo che nella realtà manca al suo corpo. […] In tal modo si origina un Io ideale che forma la base per successive identificazioni, oggetti d’amore, appropriazioni ecc. È l’ «autorappresentazione» (l’Io ideale) che viene stabilizzata e fissata da quel punto in avanti, quella con cui confina il soggetto quale Ideale dell’Io (L’altro/L’altra). In questo modello, ogni relazione affettivamente carica si basa quindi su una sorta di misconoscimento proiettivo e narcisistico della realtà – desiderare è sempre il desiderio di essere desiderati da qualcun altro. […] L’identificazione [nel cinema] poggia su una relazione immaginaria simile a quella del riconoscimento di sè nella prima infanzia, sebbene lo spettatore non abbia certo più bisogno che «questa somiglianza gli venga letteralmente illustrata sullo schermo, come avveniva sullo specchio della sua infanzia»” in Thomas Elsaesser e Malte Hagener in Specchio e volto, in Teoria del Film, Un’introduzione, Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, p.67

(5)”Il fatto che sembra esserci sempre maggior spettacolo, e quindi più cinema, nella rappresentazione della donna non è senza impicazioni ideologiche. Gilda si sposta nell’immobilità: la donna viene resa in modo improvviso nella totalizzazione del feticcio” in M.A. Doane, Identità e misconoscimento, in Eretiche ed Erotiche, a cura di G. Fanara e F. Giovannelli, Napoli, Liguori, 2004, p.82

(6)P. Bertetto, L’analisi interpretativa. Mulholland Drive, in Id., a cura di, Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006 pp. 239-241

(7)”di norma il primo evento principale della trama centrale si verifica nel corso del primo quarto della narrazione.” in Robert McKee, Story, Roma, Omero editore, 2010, p. 190

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