Gone Girl (tradotto in italiano con L’amore bugiardo) è il nono lungometraggio di David Fincher (Seven, Fight Club, Il curioso caso di Benjamin Button) in uscita in Italia il 18 Dicembre 2014. Si tratta di una pellicola “magnetica” che attira lo sguardo ed offre un panorama complesso sui rapporti umani.
L’impressione che se ne ricava durante la visione è che si tratta di un film costruito per ruotare intorno al concetto della messa-in-scena. La storia risulta interessante nel senso che la sceneggiatura guida ed accompagna lo spettatore nel corso di numerosi twist e colpi di scena che, in tutta onestà, non sono tutti sullo stesso livello: alcuni twist colpiscono davvero mentre in altri il piacere della scoperta (e del ribaltamento di senso) è rovinato dalle ipotesi che lo spettatore è motivato a formare nel corso della vicenda (rimane comunque allo spettatore la sensazione di gratificazione per la conferma della propria ipotesi).
La sceneggiatura funziona quindi quasi su tutti i livelli: in alcuni momenti ispirati sembra tutto rientrare in una caratterizzazione attenta e perfetta dei personaggi e in special modo, nella parte della protagonista Amy Dunne (Rosamund Pike), ad esempio quando ci viene raccontato che Amy (che nel frattempo è scomparsa da qualche giorno) è uscita vestita di rosa alla ricerca di una pistola in un casermone abbandonato e luogo di spaccio, e viene notata proprio per questo suo essere “alieno” all’ambiente, personaggio quello di Amy che sembra essere totalmente improntato alle tecniche (e alle ideologie) della messa-in-scena e quindi un dettaglio rivelato che può sembrare anche piuttosto scontato in un primo momento, per tramite di un “fulmineo” rimontaggio, che è quello che si compie nel momento di una rivelazione (o, della morte) nella mente dello spettatore, acquisisce un senso completo e di perfetta caratterizzazione. Inoltre, il testo della sceneggiatura chiede di far funzionare l’ironia nel momento in cui si palesano dei (necessari, per il genere) buchi di sceneggiatura (ad esempio a riguardo del “taglierino”).
Stilisticamente il film è basato su una chiave estetica derivante dal mezzo digitale (con richiami quindi ad alcune estetiche anche televisive, non è un caso che Fincher sia dietro al progetto della serie Tv House of Cards): salta all’occhio nelle prime impressioni l’utilizzo di numerose dissolvenze in nero, quasi come se si trattasse di un occhio che chiude e si riapre su nuove inquadrature, tanto che all’inizio del film la difficoltà di lettura dei titoli e dell’immagine contemporaneamente invitano lo spettatore a concentrarsi e ad avere una lettura delle immagini che sia più veloce (contemporaneamente, più adatta a tralasciare delle questioni razionali) ed agile nel trarre dal film le informazioni necessarie.
L’apertura e la chiusura del film sono circolari, la chiusura con una rapida capriola si situa di nuovo sull’apertura del film e sui dilemmi inizialmente posti: la pellicola diviene quindi una rappresentazione “immaginifica” (una messa-in-scena meglio, per quel che il film vuole dirci) di un matrimonio e del ruolo della bugia, vera e propria protagonista del film.
Tutti mentono, chi in un modo più violento chi in una maniera più silenziosa, ma nel film la bugia non ha solo senso “funzionalistico”, non va solo quindi nel senso della semina e del raccolto, non è quindi solo una causa per qualche effetto, ma diviene effetto di per sè.
Gli attori sono perfettamente calati nelle parti: lo stesso Ben Affleck è perfettamente credibile nel suo ruolo. Affleck è compassato come al solito, ma questa volta a sostegno della sua recitazione c’è un ruolo che è altrettanto compassato; il suo viso è perfettamente bilanciato al viso del personaggio. Le sue espressioni sono precise (ad es: il sorriso che gli viene chiesto dai giornalisti), e la cura dei dettagli sembra andare nel verso di un’accresciuta ambiguità anch’essa portatrice di pessimismo anche quando tutti i sospetti della trama si concentrano su di lui. L’unica pecca sta forse nel fatto che si dubiti poco sin dall’inizio della sua colpevolezza (che diviene alibi per la messa-in-scena di Fincher, e ironico contraltare nel momento in cui lo spettatore scopre che non è così), mentre pochi dubbi si hanno a riguardo della sua controparte femminile. Il primo twist di sceneggiatura è talmente forte che il personaggio di Amy rimarrà ancorato “emozionalmente” a quella prima percezione e forse in questo c’è uno dei limiti superficiali del film: così come avveniva nei noir, il ruolo della donna è sì maggiormente volto all’indipendenza, ma ciò avviene a costi elevatissimi. La differenza è che la donna, in questo film, sembra essere l’unica (anche se ci arriva in maniera devastante) ad avere idea di cosa bisogna fare per continuare, per riappropriarsi della propria vita. Porre un velo, nascondersi dietro di esso, organizzare una messa-in-scena perfetta che tende a fugare dubbi: Amy come un regista dunque. Ed è in questa soluzione di continuità tra il meccanismo cinematografico e la trama che c’è il più potente risvolto del film: riportare il film sul terreno della vita.
Tutto il film è interesante per l’equilibrio tra l’ironia (humor nero) e il pessimismo (della chiusura), e trova compimento nel suo “oscuro” richiamo alla realtà e al complesso equilibrio dell’istituzione del matrimonio, ma anche più in generale agli equilibri (le bugie) che vengono discussi nelle relazioni.
In alcuni tratti pecca di suspense, non rivelandosi dunque il miglior film di Fincher sul tema, ma di sicuro una delle sue opere recenti più ispirate. Il concetto della morte è praticamente onnipresente, non tanto nelle vittime della vicenda, ma nella paranoia di trovarsi improvvisamente dinanzi il corpo ormai finito (abietto) di Amy. Almeno fino al prossimo colpo di scena.
Gone Girl è una pellicola “magnetica” che tiene gli occhi incollati allo schermo più che per la suspense, per il fatto che narra e dialoga con uno dei fondamenti più atavici della nostra società: il rapporto tra uomo e donna, i quali, in questo film, sono rappresentanti di due mondi alieni che collidono. Collisione che è sempre adatta ad essere indagata (sfruttata) dai mass-media tra cui il cinema che però, con il tocco di Fincher, non acquisisce quella morbosità da talk-show, di indagine da salotto televisivo facilmente sconcertabile, bensì, attraverso lo smottamento continuo delle fondamenta dei rapporti umani, raggiunge un’inquietante punto di precarietà. Per poi mettere addirittura in dubbio (nel finale) finanche la visione dello spettatore.
Impressioni “rapide” dalla prima proiezione del film al “FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA” – IX Edizione 2014