Il film Le Samouraï fu uno dei più grossi success commerciali nella carriera di Melville andando a staccare 1.932.372 biglietti(1). Ma mentre il pubblico premiò l’opera, l’apparato critico si divise esattamente in due fazioni: i detrattori (che avevano raggiunto ormai la posizione del disprezzo) e coloro i quali adoravano il film. Non c’erano vie di mezzo, Melville aveva spaccato in due l’ambiente cinematografico francese. E noi, oggi, come lo vediamo?
“Chi è Jef Costello?”
Jef Costello (2), il protagonista del film Le Samouraï “non è né un malvivente, né un gangster(3)” racconta Melville a Rui Nogueira nel corso della sua intervista. Chi è? O meglio, cos’è?
Denitza Batcheva nella sua analisi dell’opera di Melville afferma che “uno dei tratti moderni di Melville, consiste nel ridurre i personaggi ad una pura esteriorità comportamentale che rende impossibile qualunque analisi psicologica delle loro azioni. Li vediamo operare senza mai sapere quello che pensano – da qui il loro silenzio come in una ‘manifestazione dell’insondabile opacità dell’essere’”(4)
Personaggio come icona.
Una prima risposta al problema dell’identità (esteriore) del protagonista sembrerebbe trovarsi nell’aspetto della performance di Alain Delon che si fonde con la preoccupazione (o forse con l’obiettivo) di Melville di gestire l’identità del “gangster” come immagine (icona): un fantasma cinematografico svuotato di ogni determinismo psicologico.
Un’immagine dunque che appartiene innanzitutto al cinema.
Questo diviene chiaro non appena, sospendendo il giudizio sul naturalismo della messa in scena, ci rendiamo conto che solo nel meccanismo cinematografico (e le sue formazioni spazio-temporali), Jef può compiere i suoi due omicidi. Il regista tratta le sue sparatorie sempre in maniera irrealistica (esattamente come in Le deuxième souffle): la pistola compare dove non dovrebbe essere, portandoci originalmente (e per tramite del montaggio) ad una sensazione di sorpresa.
O ancora, un’icona squisitamente cinematografica quando avverte l’uomo che lo sta minacciando con una pistola che non parla “mai con chi ha una pistola in mano” che ci riporta alla mente Humphrey Bogart minacciato da Peter Lorre in The Maltese Falcon (1941) di John Huston (al di cui The Asphalt Jungle si ispirerà quasi per intero la sequenza che porta Costello al primo giudizio dei testimoni – sequenza che potrebbe inoltre essere trattata come un casting). Ma sarà anche un’eco che si troverà nella frase “Non rispondo quando sono minacciato” che qualche anno dopo lo stesso Delon in Le Cercle Rouge dirà a Gian-Maria Volontè mentre questi gli pone delle domande puntandogli contro una pistola. Melville ha istituito un magistrale gioco di specchi che porta diretto al cuore del cinema che lui ama, quasi come se ci trovassimo nel finale di Lady from Shangai di Orson Welles.
Il taglio subito successivo a questo gioco di specchi ci porta ad associare lo scontro tra i due criminali e un meeting di poliziotti in campo medio che ci situa immediatamente nei labili confini etici che Fritz Lang aveva esplorato nel suo M (1931) e che vedeva come attore protagonista proprio quel Peter Lorre che minacciava Bogart in The Maltese Falcon, come in un cerchio rosso che si ricongiunge. Ma anche nella sequenza dell’intrusione dei poliziotti che piazzano microspie (le nuove tecnologie saranno sconfitte ancora una volta dall’inventiva dell’uomo – altro fil rouge nell’opera del regista) nell’appartamento di Costello risuona forte l’eco di Fritz Lang soprattutto per quel che riguarda la confusione che si crea su chi siano realmente questi uomini: nel corso della sequenza non si riesce mai a capire se siano poliziotti o criminali. Anzi i simboli che confondono sono moltiplicati. Tanto i poliziotti quanto i fuorilegge condividono gli stessi metodi (una seconda intrusione avviene successivamente per opera dell’uomo che minaccia Costello) ma anche gli stessi trucchi del mestiere (il mazzo di chiavi di cui i poliziotti si servono per violare l’appartamento di Costello è identico a quello che Costello usa per rubare le due auto). Ma il confine è estremamente minimo, se non assente, anche nella sequenza dell’interrogatorio scorretto dei poliziotti ai danni di Nathalie Delon: i tutori dell’ordine si comportano esattamente come dei ladri in cerca di un bottino.
Anche i gesti, come quelli che contraddistinguono la narcisistica vestizione che Costello opera o il suo sfiorare il cappello ogni volta che lo indossa, ripetuti chissà quante volte nella storia del cinema (oltre che al livello delle riprese stesse, con decine di shots in cui veniva ripetuta “schizofrenicamente” l’azione) indicano questa sua caratterizzazione da immagine. Azioni che però sembrano anche portare ad una sorta di tic “indicativo di un comportamento che ha qualcosa di rituale”, come sembra indicarci Pino Gaeta(5).
Il bianco ed il nero.
A questo punto sembra intervenire Melville a darci una definitiva chiave del livello psicologico del personaggio (ed anche della narrazione visiva, in fondo) : [Le Samouraï ] …è la descrizione meticolosa, clinica del comportamento dell’assassino a pagamento che è, per definizione, uno schizofrenico(6)”.
Tutto nel film riflette questa tendenza bipolare e risulta in un costante raddoppio, come in un sogno in cui l’intero universo interagisce in qualche modo: Costello ruba due auto; uccide due uomini (tre se contiamo lui come terzo uomo tramite il suo “suicidio”); incontra due volte l’uomo della passerella; torna due volte sul luogo del delitto (una terza si può contare sempre per il suo suicidio, ma quella sequenza come si può già capire nasconde un’incrinazione); ci sono due mazzi di chiavi identici utilizzati sia da Costello sia dai (due) poliziotti; due donne hanno accesso al suo mondo interiore; nel film ci sono due scene (magistrali) d’addio; sfugge a due pedinamenti.
D’altronde Jef si innamora della propria Morte che, vestita di bianco e con la pelle nera, fa innamorare di sé il killer (in questo scontro anche cromatico, tra la fotografia grigia e i due estremi del bianco e del nero che la pianista ha indosso). Il binomio Amore-Morte è spinto fino all’estremizzazione ultima in un richiamo alla letteratura romantica. Ginette Vincendenau sembra accompagnarci in questa sua caratterizzazione :
“Jef può essere anche visto sotto la luce del dandy.[…] Il dandy è una figura narcisistica, spesso aristocratica, eccessivamente preoccupata dell’abbigliamento e del proprio mostrarsi, che vive un certo significativo rituale di vita ma è alienato dal mondo reale. […] Francois Dolto afferma che questa alienazione significava che il dandy non accetta ‘alcuna autorità, nemmeno quella dell’amore’.” – ed a questo punto Ginette Vincendenau ci chiede se – “può essere solo un caso che Jef, dopo che è stato rilasciato dalla polizia, fugge attraverso un palazzo situato su via Lord Byron?(7)”
Jef Costello inoltre designa una traiettoria che va tutta sotto il segno del noir utilizzando due elementi cardine dello stesso genere: “l’alterità del protagonista rispetto all’ambiente che lo circonda e rispetto alla città(8)”. La fuga dal pedinamento in metro (anche grazie alle scelte di casting) cos’è se non una fuga da tutto l’alieno da sé ed una ricerca di una tana interiore (l’astrazione figurativa della sua camera)? La maschera rivela ormai le sue crepe e Costello è costretto ad una fuga paranoica da tutto il mondo esterno e anche dal femminino (l’ultima pedinatrice).
Schegge di comportamento solitario che fin dall’inizio sono state seminate, ora offrono tutto il loro raccolto: Costello ci è presentato infine come un samurai, come “un lupo ferito” e proprio come il suo uccellino in gabbia. In fondo Melville ci aveva avvertito con il (finto) cartello tratto dal Bushido ad inizio film : “Non c’è solitudine più profonda di quella del samurai, tranne forse quella della tigre nella giungla”. E lo sappiamo, i samurai vivono un codice ben preciso e delle regole ferree: rotte per Costello poiché nelle regole del gioco la protezione non richiesta è un’anomalia, e quindi, quando “nell’ingranaggio, si inserisce un cuneo perturbante, l’ingranaggio salta(9)” e perciò anche il meccanismo bipolare che finora aveva condotto la narrazione – e permesso a Costello di sopravvivere nel mondo – subisce un cortocircuito.
Costello è un samouraï troppo esperto per intravedere in questa rottura del rituale una speranza di salvezza e manda in scena un’altra delle tematiche melvilliane per eccellenza: l’acte gratuit (l’uccisione di Olivier Rey e il contratto che deve concludere) che conduce Costello faccia a faccia con la morte. Tutta la sequenza finale è disseminata di indizi del suo suicidio (harakiri): lascia per la prima volta il cappello al guardaroba del locale, sfiora il numero di riferimento del guardaroba e lo lascia sul bancone per concludersi poi nel finale con la rivelazioni che la pistola è scarica. Caduta ormai l’identità, l’immagine che Costello si è ricucito addosso, l’alieno da sé completa la sua minaccia per quel piccolo elemento inatteso che devia la traiettoria “rituale” e porta il protagonista a trovare la morte.
Subito dopo la sparatoria in cui trova la fine Jef Costello, la macchina da presa compie un movimento ascendente sulla pianista che guarda severa verso il basso: non c’è compassione nel suo sguardo, ma anzi quasi soddisfazione narcisistica rappresentante la vittoria della morte che, come sappiamo, in Melville è sempre da intendersi come destino ed ‘inevitabile chiusura del cerchio. Ed è allora che, ancora una volta, riscopriamo che il noir, in Melville, “si ritaglia uno spazio metafisico(10)”.
E che la domanda è la stessa dell’inizio: “chi è Jef Costello?”.
Le Samouraï
Il punto di partenza dal quale il film prende il via è incentrato sul concetto di alibi così come dichiarato più e più volte da Melville nel corso di numerose interviste.
In fondo l’alibi non è altro che una messinscena. In questo senso Jef Costello chi altri è se non il regista alle prese con la verifica della propria messinscena? Il nichilismo che attanaglia Costello sembra popolare esattamente la stessa mente di Melville e la maschera dietro la quale si nasconde la maggior parte dei personaggi del regista diviene a questo punto definitiva, ma non soltanto per le icone del suo cinema, ma anche per lo stesso regista che ha ormai rotto definitivamente con l’esterno, chiudendo sempre di più la sua personalità agli sguardi esterni e cominciando sempre più di sovente ad indossare un’equivalente di un’immagine cinematografica nelle sue uscite pubbliche (il cappello e gli occhiali).
Ed ecco perchè candidamente Melville ammetteva che “Le Samouraï è l’analisi di uno schizofrenico fatta da un paranoico, dato che tutti i creatori sono paranoici.(11)”
tratta dal libro “Jean-Pierre Melville“- Marco Venditti” (2014)
NOTE:
(1) “Melville’s films at the French Box Office” in Ginette Vincendenau, Jean-Pierre Melville, An American in Paris, London, BFI, 2003, Appendix 1 p.260
(2) Il nome originale è Jef Costello e non Frank Costello come nel titolo italiano debitore di un gangster americano.
(3) J-P.M. In Rui Nogueira, Il cinema secondo Melville, Genova, Le Mani, 1994, p. 121
(4) Denitza Bantcheva, Jean-Pierre Melville : de l’ œuvre a l’homme, Troyes, Librairie Blue, 1996, p.155
(5) Pino Gaeta, Jean-Pierre Melville, Firenze, La Nuova Italia, Castoro Cinema, 1990, p.75
(6) J.P-M. In Rui Nogueira, op.cit., p. 121
(7) Ginette Vincendenau, Jean-Pierre Melville, An American in Paris, London, BFI, 2003, p. 184
(8) G. De Cataldo, Il tempo della visione in Mauro Gervasini, Emanuela Martini (a cura di) Jean-Pierre Melville,Torino, Il castoro, 2008, p.35
(9) Ibidem, p.39
(10) Ibidem, p.35
(11) Rui Nogueira, op.cit., p. 122
Non sapete che film guardare stasera? Per suggerimenti, date un’occhiata al nostro Dizionario dei film.